L’unico modo di dimostrargli di essere contrariata era mettere su il broncio: un vezzo che aveva imparato a usare da poco proprio grazie a lui. Le era venuto spontaneo farlo quando era ricomparso dopo giorni e aveva capito di avere fatto centro involontariamente. Arcangelo le aveva chiesto perché avesse messo la funcia, quel broncio tenero da fargli venire il desiderio di stringerla fra le braccia e consolarla. Mai avrebbe voluto essere lui la causa di tale dispiacere! Rosa aveva alzato le spalle e proseguito il cammino con le ginocchia diventate di burro, tanta era la contentezza di vederlo così preso da lei. L’indomani, dopo averla affiancata, si era fatto comparire fra le labbra una rosa rossa, tenendo stretto il gambo fra i denti, e gliel’aveva offerta sporgendosi verso di lei, la quale non aveva potuto che accettare, preoccupata che le spine gli ferissero le labbra. E glielo aveva pure detto: «Ti ferisci con le spine!»«Non sanguineranno mai tanto quanto sta sanguinando il mio cuore per te dopo averti visto imbronciata a causa mia».Fu l’inizio di un rituale che sarebbe durato nel tempo: ogni sparizione e successiva ricomparsa sarebbe stata segnata con una rosa rossa. Nonostante si lambiccasse il cervello, non riusciva a dare un senso a quelle assenze: l’unica spiegazione plausibile era che stesse attuando una tattica per conquistarla, concludendo così il suo peregrinare immaginario che tutto sommato lasciava poco margine alla fantasia.(.......) Alberto, finalmente libero, corse nello spiazzo dietro la chiesa, dove stava con gli amici del catechismo. Mamma e Catena lo avevano salutato con un bacio; sentiva ancora il profumo dolciastro della zia appiccicato al bavero del montgomery. Si rimise in ordine i capelli scompigliati dalla mano di papà. Il pranzo fu prevalentemente silenzioso per Arcangelo, Rosa e Alberto, parlò solo Catena. Raccontò proprio di come fosse divertente andare il due mattina a casa di Arcangelo e aspettare che si svegliasse. Tanta era l’emozione di scoprire cosa gli avessero portato i morti che Uccio dormiva poco. Appena sveglio guardava se ai piedi del letto ci fossero le scarpe, se non le vedeva controllava dietro la porta, se non le trovava nemmeno lì si metteva a saltare dalla gioia. “Passarono, passarono”, urlava dalla contentezza. Frenetico, cercava per tutta la casa il cesto con i doni e come lo trovava si abbuffava di frutta martorana, di tetù ricoperti di glassa al cioccolato, che quella bianca a Uccio non piaceva, e di anasini. «Ma quanto amavi gli anasini, ricordi? Quando sento profumo di anice torno indietro in quegli anni. Zia Concetta ci metteva l’anima per prepararli, tutti uguali, tutti perfettamente ricoperti con i confettini di anice, e quando li mangiavi, se ne cadeva uno, con il dito bagnato di saliva lo facevi attaccare al polpastrello. Che soddisfazione ti dava non perderne nemmeno una briciola!»«Megghiu uno saziu ca’ cento riuni!», incalzò Arcangelo, ridendo di gusto.«Vero! Nemmeno uno a tuo fratello… mischino!», confermò Catena. «Per primo facevi sparire il bambino di zucchero che stava al centro del cesto: ci facevi uscire dalla stanza e lo nascondevi… ma dove lo ammucciavi? Era introvabile!»Con il collo steso verso il cugino, gli si avvicinò al viso con il naso arricciato, allungò una mano e gli scompigliò i capelli.«Quanto eri bello!»Proseguì ricordando il trenino di latta che lei gli aveva regalato con i suoi risparmi.«Ma tu non lo sapevi che lo avevo comprato io…», e continuò a descrivere quanto quel bambino ormai alto da sembrare un piccolo uomo si emozionasse appena riusciva a scovare ʼu cannistru. Come Rosa aprì bocca per chiederle quanti anni avesse all’epoca Arcangelo, vide il marito allungare una mano, serrare il gomito di Catena e, senza lasciarle il tempo di formulare la domanda, le si rivolse brusco: «Che facciamo? Proseguiamo o iniziamo la digestione prima di aver mangiato il secondo… mi sto alloppiando sulla scodella!»La cugina captò una scarica nell’aria presagio di tempesta e irrigidì le spalle. Arcangelo, sempre con la mano sul gomito della cugina, si rivolse a Rosa che, già in piedi, stava andando in cucina: «Se vuoi posso andare io, anima mia».Quando tornò con il vassoio in mano, Catena riprese a parlare ma cambiò totalmente argomento e raccontò di quando viveva in America. Fra un boccone e l’altro non si zittì più, finché Rosa arginò il fiume di parole: «E da quanto sei tornata in Italia? Sai com’è tuo cugino: non racconta granché. Ci lascia sempre con la curiosità a me e ad Alberto! Vedi come fa: appena siamo sul più bello interrompe. Almeno a te non si devono tirare fuori le parole con le tenaglie!»Increspò gli zigomi e rimase in attesa della risposta.«Da un po’…», e restituì a Rosa un mezzo sorriso. Riprese a parlare dell’America e del marito morto: un brav’uomo, grande lavoratore, le aveva fatto fare la vita da signora.«Miii, baciata dalla fortuna allora… Che lavoro faceva?»Questa volta rimase a fissare Catena con le sopracciglia arcuate. Quella di rimando, ringalluzzita, tirò su le spalle.«Era nel commercio, un uomo straordinario…»«Da quanto è morto, è tanto?»Per essere certa di non perdersi la risposta, Rosa si era messa con gli avambracci sulla tavola e sporta in avanti con l’orecchio teso.«Ehhh, da quando se n’è andato ho perso il senso del tempo, credimi… ogni giorno senza di lui mi sembra un anno. Fortuna che ho ritrovato Uccio, un po’ di famiglia in questa vita solitaria, e per fortuna ho trovato anche voi…»Per niente colpita dalla posa di Rosa, aveva risposto con la testa inclinata, gli occhi a pesce lesso e le labbra strette. A Rosa parvero il buco del culo di una gallina. Le venne da pensare che avesse pure il cervello come quello di una gallina.Con un piccolo scatto sbatté la mano sul tavolo quasi a richiamarla alla realtà, che lei alle favole aveva difficoltà a crederci.«È proprio vero, le vie del Signore sono infinite… e guarda tu che combinazione… sei venuta a vivere proprio a Milano!», e terminò di nuovo con una manata sul tavolo. Ora sì che Rosa la fissava dritta con gli occhi a fessura. Catena lì per lì rimase sconcertata, forse più dai suoi gesti che da quello che stava dicendo. Arcangelo e Alberto seguivano lo scambio di battute spostando la testa a destra e a manca per non perdere il botta e risposta giocato sul tavolo da pranzo come in una partita di ping-pong.Catena, l’aria da Madonna immacolata, con le spalle in avanti quasi fosse pronta a prostrarsi per una grazia ricevuta, abbassò il tono di voce e rispose: «La vita alle volte ci riserva delle belle sorprese, anche quando il destino si è accanito per farci soffrire».Rosa, entrata ormai nella spirale delle domande, si era messa a formularle studiando la maniera per mettere in difficoltà la cugina. Incauta, alzò di mezzo tono la voce, allargò le braccia e ostentando stupore si lanciò: «Ehhh, che belle sorprese, è vero Catena?»Non soddisfatta, intrecciò le braccia sullo stomaco, si protese in avanti e sputò la domanda come una serpe all’attacco: «Ma tornare al paese non ti piaceva? E…»La pedata del marito sotto il tavolo, arrivata precisa allo stinco, era stata eloquente: basta domande. Dopo poco la cugina si era congedata con baci, abbracci e ringraziamenti per essere stata loro ospite. Da quel momento una cappa pesante era calata in casa. Arcangelo, seduto sul divano, fumava una sigaretta dietro l’altra. Rosa sbatacchiava pentole e posate e, talmente presa dal suo rimuginare, borbottava a mezza voce, continuando a chiedere a una Catena fantasma: «Ma tornare al paese non ti piaceva? Proprio qui dovevi venire? Io secondo te sono fessa, vero? Credi che non veda la tua aria di commiserazione quando mi guardi, sei convinta che io sia cretina, una povera disgraziata che non conosce il mondo come a te. Una moglie disattenta che non riesce ad accudire il marito, a renderlo felice… e invece tu sì, vero? Lo vedo come ti guarda… ti vedo come lo guardi, ti credi che sono orba? Perché non rimanesti in America se lì è tutto così bello, forse perché ti mancava Uccio? Se sono gelosa? Sì, sono gelosa dell’esclusiva che vuoi con mio marito… Nena, quanto non ti sopporto, cara Nena!»Catena fantasma ascoltava con la sua solita espressione da santarellina, senza degnarla di una risposta.«Meglio cornuti che malo ascoltati!», esclamò con un tono più alto, chiudendo il cassetto delle posate. Dal salotto Arcangelo le chiese chi fosse cornuto.«ʼU casciolo, ʼu casciolo delle posate, si incastrò!»Rovistò in un cassetto e tirò fuori una boccetta, si girò leggermente per accertarsi che Arcangelo non la vedesse e si strizzò una pipetta di gocce direttamente in bocca, anzi due.Ad Alberto non era rimasto altro che ritirarsi in camera sua. Fuori pioveva ed era già buio, aveva nostalgia del paese, degli amici, dei nonni, dei cugini, ma più di tutto del sole e del mare, e anche di Giovanna. Ancora non si era conclusa quella giornata uggiosa, iniziata con la messa più lunga a cui avesse mai partecipato, allietata per il breve spazio in cui aveva giocato a calcio, proseguita con l’intrusa che muoveva le labbra rosso fuoco come se masticasse una gomma americana, e scandita dalla pioggia che batteva sui vetri nel pomeriggio. Terminò, infine, dopo una cena poco allettante: un brodino triste dentro cui galleggiava della pasta di un formato ridicolo, le farfalline.Pronto a deridere quel piatto insulso, le parole gli morirono sulla bocca quando vide l’espressione schifata di papà alla prima cucchiaiata, seguita da una battuta che fece ridere solo lui: «Ottimo questo brodino, ottimo per farsi un clistere! Dopo che ci siamo sciacquati le budella, con che cosa le riempiamo?»Rosa non si dette pena di rispondere, prese la scodella e la rovesciò nel lavello.«Sei pazza!»«Ti piacerebbe», fu la risposta secca.Alberto trangugiò il resto della minestra senza sollevare il capo; subito dopo si cacciò in bocca due fette di prosciutto prese direttamente dal cartoccio appoggiato al centro della tavola.«Bello questo piatto di portata, ceramica di lusso…», sfotté Arcangelo.«Siamo gente modesta, noi», controbatté Rosa. «Forse dovevamo andare a vivere in America! Sai che piatti di ceramica potevamo permetterci lì!»«Se vuoi ti accatto uova e pure una pupa da portarti appresso… buon sangue non mente…»Masticò un vaffanculo fra i denti dandogli le spalle.
Alberto si era cacciato a letto sperando di dormire subito, ma stentava a prendere sonno. L’irrequietezza nelle gambe della mattina in chiesa era ancora lì: le muoveva sotto le coperte senza requie, rigirandosi su un fianco e poi sull’altro. Le conchiglie nelle orecchie non erano bastate, le aveva tolte e appoggiate sul comodino, poi le aveva riprese e premute ancora più a fondo fino quasi a provare dolore. Le gambe rigide e distese: si era imposto di non muoverle. Poi un rumore lieve, attutito dalle conchiglie. Allentò la pressione e percepì allora un colpo più netto: qualcosa come una sedia spostata. Quello dopo ancora era un singulto. Aveva lasciato andare del tutto le conchiglie. Ora sentiva le loro voci che sussurravano. Anche a non volere, le orecchie si erano messe in ascolto, ma non capiva se parlassero o ridessero piano piano. Le gambe avevano ripreso ad agitarsi e lo avevano condotto fuori dalla camera, nell’esatto istante in cui le ombre di mamma e papà entravano nella loro. Due mani pelose afferravano, strattonandola, una camicia da notte. Era rimasto al buio, in un angolo del corridoio, pietrificato. Poi strisciò con le spalle lungo il muro fino alla camera dei genitori. C’era poca luce, solo quella degli abat-jour, il letto disfatto, la poltroncina rossa dal lato della mamma spostata e tutta di traverso in mezzo alla stanza.
Poi si disse che avrebbe dovuto svegliarsi, ma le sue gambe lo tenevano lì, dentro un tunnel semibuio. In fondo al tunnel papà, appena illuminato, con la testa della mamma stretta fra le ginocchia. La mano pelosa, gigantesca, si alzava e si abbassava come quella di un domatore di circo davanti alla tigre. Le orecchie non sentivano lo schiocco della frusta, la cinghia sulla schiena non fa quel rumore.
Alberto si trattenne a letto un po’ di più: era un altro giorno di festa, quello dei morti. Continuava a fare confusione fra quale fosse quello dei morti e quello d’Ognissanti, ma l’importante che fosse festa per due giorni di fila. Si sentiva quasi felice se non fosse stato per il ricordo dell’incubo della notte prima. Gli pareva ancora presente, in più c’era un silenzio irreale in casa e nessun profumo dalla cucina.
Scese dal letto con tutti i muscoli indolenziti come se avesse corso e tirato calci al pallone per un pomeriggio intero. La camera dei genitori era aperta. La mamma era ancora a letto, girata su un fianco verso la finestra. Andò nelle altre stanze: cucina, bagno, salotto. Papà era fuori. Tornato indietro, si buttò nel lettone con un piccolo salto; un leggero lamento e la mamma si era voltata verso di lui abbracciandolo.
«Buongiorno, anima mia»
«Ti senti male?»
Gli rispose di no.
«Perché allora sei ancora a letto?» Perché era un giorno di festa e voleva riposarsi un po’, disse.
«Papà?»
A fare due passi, era festa anche per lui.
«Mamma, ho fatto un incubo, brutto, bruttissimo, anzi ancora di più che bruttissimo».
Anche lei gli disse di aver avuto un incubo, il peggiore della sua vita. Adesso però dovevano alzarsi, fare colazione, lavarsi, vestirsi e godersi il giorno di festa, così l’incubo sarebbe andato via e non sarebbe tornato mai più.
«Anzi, se tu fai finta di non averlo fatto, è come se lui non ci sia mai stato».
«Mamma, ma io ho sognato te e papà, e…»
Gli mise un dito davanti alla bocca.
«Shhh! Vedi? Io il mio non lo ricordo già più, perché non mi piaceva e non lo voglio ricordare. Anzi, ora che ci penso, io non ho fatto un incubo, e se ci pensi bene anche tu forse hai immaginato di fare un incubo… vai a lavarti il sonno dagli occhi: vedrai che così lavi via anche quello che hai sognato. Avanti, amuninni!»
Dopo poco si era aperta la porta di casa. Un grande fascio di rose rosse camminava lungo il corridoio in direzione della cucina dove Rosa stava preparando il pranzo del giorno di festa.


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